DOVE DIO PIANGE


Zimbabwe attende la risurrezione Intervista al Vescovo Dieter Scholz

CHINHOYI (Zimbabwe), lunedì, 12 aprile 2010 (ZENIT.org).-

Zimbabwe nella lingua locale significa “casa di pietra”. Oggi questa casa sta crollando. E' quanto ha detto monsignor Dieter Scholz, Vescovo di Chinhoyi, parlando di un Paese in cui il tasso di disoccupazione è stimato intorno all’80% e dove la gente, nel caso in cui riesca a percepire un salario, riesce appena a comprarsi una saponetta o tre fette di pane. In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps” prodotto da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, il Vescovo ha parlato della situazione attuale nel suo Paese, di come si è sviluppata e di quale sia stato il suo ruolo come pastore della Chiesa.

Come descriverebbe la situazione degli abitanti dello Zimbabwe?

Mons. Scholz: Credo che si possa dire che molte persone in Zimbabwe, forse la maggioranza, hanno perso la speranza in un cambiamento. Nell’ultimo decennio, avevano sperato che le loro sofferenze, la fame, la disoccupazione, la povertà, le malattie per le quali non possono più ricevere delle cure negli ospedali, finissero.Vi sono stati numerosi tentativi di porre rimedio alla situazione, ma hanno tutti fallito, per un motivo o per un altro.

 

Ci può fare qualche esempio per darci un’idea della sofferenza che la gente continua a vivere?

Mons. Scholz: Durante la crisi, tra le elezioni generali della fine di marzo del 2008 e le elezioni presidenziali a doppio turno della fine di giugno, in quei tre mesi vi è stato il tentativo di eliminare fisicamente l’opposizione al partito di governo, il Movimento per il cambiamento democratico. Sono stati messi in atto pestaggi, torture e uccisioni, e in una delle mie parrocchie, a Banket, a meno di 20 chilometri da Chinhoyi, un giovane, che era il nostro responsabile giovanile, Joshua Bakacheza è stato sequestrato nel mese di maggio. Allora si era già dovuto nascondere, perché era impiegato come autista per il Movimento del cambiamento democratico, anche se in realtà era solo quello il suo collegamento con l’opposizione. Il giorno del sequestro, per trovarlo, gli agenti della State Security Police sono andati dal suo fratellino, che era ancora a scuola, e gli hanno detto: “abbiamo trovato un benefattore che ti vuole offrire una borsa di studio per tutto il periodo scolastico fino alla fine della scuola secondaria”. E come previsto il ragazzo ha subito chiamato al cellulare suo fratello più grande, chiedendogli di venire a firmare il contratto. Appena arrivato a scuola è stato subito arrestato. Non è stato più visto per tre settimane, fin quando il suo corpo è stato ritrovato mezzo bruciato e mutilato, vicino a un luogo chiamato Beatrice, a sud di Harare, la capitale. Questo ha provocato un grandissimo senso di rabbia, di tristezza e di disperazione in tutta la diocesi, dove era molto conosciuto. Si tratta solo di un caso. Ma potrei raccontarne molti altri, di preti che sono stati aggrediti, la cui casa è stata data alle fiamme per presunte simpatie con l’opposizione politica. Ma non riusciamo a comprendere come la diversità di idee politiche possa spingere a tale barbarie. È un mistero che porta a credere che non esista solo il male nel mondo, ma che esista il maligno che manda i suoi spiriti malvagi, come dice Sant’Ignazio negli esercizi spirituali della prima settimana, un testo che conoscevo bene. Ignazio parla attraverso le immagini e il linguaggio del suo tempo quando si riferisce a Lucifero seduto nella grande piana di Babilonia, su un trono di fuoco e fumo, chiamando a raccolta tutti i demoni del mondo e inviandoli con le sue istruzioni malvagie. In quei tre mesi io ho capito che le immagini e il linguaggio usato da Sant’Ignazio nel XVI secolo sono più vere di quanto pensassi. Abbiamo visto il male imperversare in tutto il Paese, da nord a sud, da est a ovest.

 

Perché lo Zimbabwe è stato scelto per portare questa croce?

Mons. Scholz: E' una lunga storia. Come è noto, i primi colonizzatori, arrivati nel XIX secolo, hanno conquistato la terra con la violenza, l’avidità e la frode. Hanno sottratto la terra alla gente. Hanno costretto la gente a lavorare per loro. È vero che le infrastrutture che oggi abbiamo sono frutto del lavoro della gente e della conoscenza dei colonizzatori. Ma vi è stata molta crudeltà, molta ingiustizia, anche se non istituzionalizzata come in Sud Africa, e vi è stata anche segregazione e discriminazione razziale. Questo ha portato alla guerra civile, al sollevamento del Movimento nazionalista africano. Esistevano in effetti due movimenti. Robert Mugabe era a capo dell’Unione nazionale africana dello Zimbabwe.

 

In una guerra civile combattuta dalla foresta?

Mons. Scholz: Sì. La guerriglia rappresentava gli interessi della gente locale, ma naturalmente l’esercito della Rhodesia era sostenuto dal Sud Africa e disponeva di armi e tecnologie avanzate. Ma forse è proprio per questo che alla fine ha vinto la guerriglia, perché la guerra civile si è svolta nella foresta.

 

In sostanza ci sta dicendo che lo Zimbabwe è nato grazie alla violenza?

Mons. Scholz: Ciò che è certo è che in tutto il periodo, dall’arrivo dei primi colonizzatori, fino a oggi, non vi è stato un momento di pace serena e tranquilla. La violenza è stata sempre presente. Non sempre fisica, talvolta strutturale attraverso leggi di discriminazione, di povertà forzata, di diniego del diritto di voto, ma per il futuro – lo voglio dire adesso, ma ci possiamo tornare – per il futuro sono fiducioso: per aver attraversato tutta questa sofferenza e questo male, la gente – sia i bianchi che i neri – sono cambiati.

 

In che modo?

Mons. Scholz: Sono cambiati nel senso che dopo la guerra civile, negli anni ’80, ho incontrato bianchi che mi dicevano che la guerra li aveva aiutati a comprendere il bene, le qualità cristiane degli africani, soprattutto la loro grande capacità di pazienza, tolleranza e prontezza al perdono. Non ne erano mai stati consapevoli prima e forse senza la guerra non ne sarebbero mai stati consapevoli. Da parte africana, le qualità a cui ho fatto cenno hanno sempre impedito alla retorica razzista degli esponenti politici di radicarsi tra la gente. La gente del luogo è molto socievole con i pochi bianchi che sono rimasti in Zimbabwe, forse poche migliaia. In un certo senso, Robert Mugabe è prigioniero del suo stesso passato ed è prigioniero della sua generazione politica. Vedo in lui molte similitudini con Ian Smith.

 

Alla fine del suo potere?

Mons. Scholz: Verso la fine.

 

Quindi ci sta dicendo che stiamo arrivando alla fine della passione per lo Zimbabwe e che possiamo guardare avanti verso la risurrezione del Paese?

Mons. Scholz: Esattamente. Bisognerà arrivarci. Robert Mugabe e la sua generazione dovranno completare il loro ciclo, ma credo che le generazioni future saranno molto diverse.

Conosco la gente. Lo Zimbabwe avrà un grande futuro. Come è noto, al tempo dell’indipendenza, nonostante la guerra civile, gli abitanti dello Zimbabwe potevano vantare il miglior grado di istruzione tra gli africani subsahariani. E non v’è dubbio che il lavoro dei missionari abbia svolto un ruolo importante in questo, con le scuole che abbiamo avviato e l’istruzione che abbiamo messo a disposizione degli studenti africani.

Morgan Tzvangerai è stato un alunno alla Silveira House, dove ho lavorato per 10 anni. La Silveira House ha formato i primi leader sindacalisti neri.

 

Ha una cultura cattolica?

Mons. Scholz: Ha una cultura cattolica, anche se non è cattolico.E, per Robert Mugabe, la Silveira House è stata come una casa durante e dopo la guerra. Da noi lavoravano le sue due sorelle, Brigit e Sabina, che così potevano disporre di un reddito, di un lavoro, ma soprattutto di protezione, e Mugabe non lo ha dimenticato. È venuto poi alla mia ordinazione portandomi un bellissimo regalo.

 

Va a Messa Mugabe?

Mons. Scholz: Andava a Messa. Ora non ci va più tanto spesso come prima. Anche questo è un mistero della sua vita: non riesco a capire come possa conciliare nella sua coscienza la sua fede, la sua politica e le sue azioni.

 

Come vede ora il suo ruolo di pastore ora e quello della Chiesa? Mentre tutte le strutture sembrano crollarle intorno, la Chiesa sembra rimanere una delle ultime voci dell’opposizione nella situazione attuale. Come vede se stesso in questa difficile responsabilità di essere pastore e al contempo di dare voce a chi non ce l’ha?

Mons. Scholz: Il mio ruolo principale è quello di sostenere i sacerdoti nel loro ancor più difficile lavoro.

Loro hanno attraversato un periodo di vera persecuzione, a partire dalla lettera pastorale “God hears the cry of the oppressed” (Dio ascolta il grido degli oppressi), che è stata pubblicata a Pasqua del 2007. Dopo questa lettera, i nostri sacerdoti sono stati perseguitati, soprattutto nella nostra provincia.

 

Come sono stati perseguitati?

Mons. Scholz: Telefonate anonime, minacce e insulti da parte di esponenti cattolici, donne cattoliche. Donne cattoliche di spicco della nostra diocesi che hanno telefonato al presidente del consiglio pastorale dicendo: i vostri preti – ovvero i sacerdoti che gli danno la Santa Comunione quando vengono a Messa la domenica – sono delinquenti, ladri e ubriaconi, e se non la smettono di parlare come parlano vedranno cosa gli faremo. Minacce di questo tipo. Credo che questa sia una sfida pastorale che ancora dobbiamo raccogliere e lo faremo quando la polvere si sarà posata. Dovremo aiutare i nostri fedeli a mettere la propria coscienza di fronte alle esigenze della fede: le semplici richieste di giustizia da un lato e il modo in cui hanno sostenuto gli eventi tra marzo e giugno del 2008 dall’altro, insieme al modo di porsi e di parlare nel partecipare alla Messa e nell’indossare simboli religiosi. Non l’abbiamo ancora potuto fare a causa delle tensioni nella comunità cristiana, ma anche nella comunità nel suo insieme e a causa delle costanti intimidazioni a cui siamo stati esposti. Quindi direi che il mio primo compito sia stato – e ho cercato di portarlo avanti al meglio – di sostenere i sacerdoti quando si trovavano a fuggire dalle parrocchie. Alcuni sono veramente dovuti scappare. Noi li abbiamo accolti nella casa vescovile o nel centro pastorale, e li abbiamo messi al sicuro. Il primo di questi sono riuscito a mandarlo in Inghilterra per un periodo di riposo e di recupero, e di rinnovamento spirituale. Altri due lo seguiranno nelle prossime settimane.

 

Quindi tra i suoi sacerdoti vi è un problema di esaurimento?

Mons. Scholz: Sì, esaurimento. Esaurimento fisico, ma anche emotivo e psichico. È difficile immaginare la società chiusa dello Zimbabwe dove vige l’illegalità. Dove, se uno viene aggredito verbalmente o fisicamente e va dalla polizia per denunciare il fatto, o se io vado dalla polizia per protestare, vengo arrestato per aver turbato la quiete pubblica e per aggressione. Direi quindi che questi sono i principali compiti del Vescovo: sostenere i sacerdoti e sostenere i fedeli, durante le mie visite nella diocesi, che abbraccia l’intera parte Nord e Nord-Est dello Zimbabwe.

Ho parlato ai fedeli e cercato di risvegliare in loro la fede. In molti casi questi viaggi sono legati alla necessità di amministrare il sacramento della Cresima e sono una meravigliosa occasione per parlare con loro sui doni dello Spirito Santo: lo spirito di consolazione, lo spirito di fede, lo spirito di speranza. Ed ho sempre sentito di ricevere molto di più di quanto potessi dare con le mie parole, osservando la fede dei cristiani che vivono nella sofferenza.

Credo che la persecuzione faccia emergere il peggio nei persecutori, ma anche il meglio nei fedeli.

 

Lei è stato molto franco con noi. Non ha paura? Fino a che punto è disposto a portare la croce in questa situazione? Insieme agli altri Vescovi avete parlato apertamente in Zimbabwe, anche attraverso la pubblicazione della Lettera pastorale. Quanto siete disposti ad andare avanti, stando così le cose?

Mons. Scholz: Per me questo non è un problema, in parte perché durante la guerra di liberazione ho collaborato con la Commissione cattolica per la giustizia e la pace, insieme al Vescovo Lamont, che è stato il nostro presidente, e ad altri tre.S ono stato arrestato. Sono stato imprigionato. Sono stato espulso. Abbiamo detto la verità allora e penso che dobbiamo dire la verità anche adesso, e questo è ciò che abbiamo fatto nella nostra Lettera pastorale. Una conferma del fatto che abbiamo affrontato il nocciolo della questione è data dall’inedita manifestazione di rabbia da parte del Governo. Erano veramente molto arrabbiati. E ancora oggi, quando incontriamo i funzionari del Governo, non vi è una occasione in cui la cosiddetta Lettera pastorale non venga citata. Loro la chiamano “la Lettera pastorale”. Ne abbiamo scritte anche altre, ma per loro quella è “la Lettera pastorale”. Credo che sia stato un gesto necessario. Lei mi ha chiesto prima cosa facciano i Vescovi. Penso che il nostro ruolo sia, da una parte di sostenere il clero, stare con la gente, camminare con le persone attraverso questa ora oscura, forse la più oscura della recente storia del Paese, e allo stesso tempo di svolgere pienamente il nostro ruolo profetico, il nostro ministero profetico, di parlare della verità.

 

E della risurrezione che cosa ci si aspetta?

Mons. Scholz: Sì, e la verità è stata sentita da entrambe le parti.

 

Lei ha parlato molto della situazione interna dello Zimbabwe. Ma dal punto di vista della comunità internazionale, si è sentito abbandonato per quanto riguarda la situazione dello Zimbabwe?

Mons. Scholz: No, non ci siamo sentiti abbandonati. Abbiamo ricevuto parole di impegno e di sostegno da ogni angolo del mondo: email, lettere, donazioni, piccole e grandi, e in particolare quando abbiamo attraversato questa crisi di cui ho parlato, tra le elezioni della fine di marzo e il ballottaggio per l’elezione presidenziale di giugno del 2008. Abbiamo cinque ospedali nella nostra diocesi e con il collasso della sanità pubblica coloro che avevano subito percosse da parte degli agenti della polizia venivano ai nostri ospedali per essere curati. Inizialmente si rifiutavano per settimane di ricorrere all’aiuto medico, ma poi arrivavano con ferite enormi sulle natiche, delle dimensioni di un pugno. Il problema era che noi non avevamo medicine a sufficienza. In questo periodo è arrivato padre Halamba con Aiuto alla Chiesa che soffre, il quale, dopo aver ascoltato il mio punto di vista sulla situazione, nell’arco di qualche giorno ci ha procurato la più generosa donazione di medicine, che ci ha consentito di rifornire gli ospedali.

 

Non è adirato per ciò che sta avvenendo nel suo Paese?

Mons. Scholz: Certo che sono adirato. E quando sono arrabbiato, la sera mi ritiro in cappella e aspetto che mi passi, per ritrovare la pace e l’equilibrio nella preghiera. Ma come si può essere in pace quando un seminarista al terzo anno, che deve essere ordinato diacono al mio rientro, viene da me e mi dice: “mio padre è stato ucciso ieri, all’età di 62 anni, perché sospettavano che facesse parte dell’opposizione, cosa del tutto infondata”? Un vicino che aveva qualche vecchio rancore lo aveva denunciato ai miliziani e questi sono andati con bastoni e travi di legno e l’hanno percosso a morte davanti alla moglie. Come si può non essere arrabbiati? Hanno cercato di chiamare la polizia e la risposta è stata: “non possiamo rendere noto il registro degli indagati perché non abbiamo la fotocopiatrice”. Questo è ciò che intendo quando dico che la verità dovrà venire fuori. I malfattori dovranno essere smascherati. Dovranno rendere conto delle loro azioni e allora potrà iniziare il processo di riconciliazione, forse anche con un’amnistia. Questo è l’errore – se posso aggiungere – che fu fatto alla fine della guerra civile, la guerra di liberazione. In un gesto di grande generosità, credo genuino, Robert Mugabe disse: “Tracciamo una linea qui. Non torneremo sul passato e inauguriamo un nuovo inizio”.

Credo che quando disse così, alla vigilia dell’indipendenza, era sincero. Non era uno stratagemma. So di alcuni bianchi che avevano deciso di emigrare in Sud Africa a causa dei timori instillatigli da Ian Smith sulle possibili ritorsioni di Mugabe. Addirittura so di una famiglia che realmente si è fermata per strada, si è messa a pregare, a discutere, e poi è tornata indietro, è andata a casa e ha proseguito l’attività agricola nel Paese. Quindi fu molto generoso, ma siamo tutti esseri umani e i conti non saldati di quella guerra ancora bruciavano nelle comunità locali.

 

Quindi non ci può essere pace senza giustizia?

Mons. Scholz: Non ci può essere riconciliazione senza verità. La verità deve venire fuori. Deve essere riconosciuta. Io credo che il perdono debba essere chiesto e debba poi essere concesso. Forse in una comunità utopistica si potrebbe dire di tirare una linea e ricominciare da capo. Ma poiché siamo come siamo, le ferite del cuore guariscono molto più lentamente delle ferite del corpo. Adesso me ne accorgo bene.

 

Che appello per lo Zimbabwe vuole lanciare ai cattolici che guardano questo programma?

Mons. Scholz: La mia prima richiesta è quella di continuare a pregare per lo Zimbabwe, a pregare per la pace, perché i leader che hanno perso le elezioni abbiano il coraggio di rassegnarsi, di lasciare che, nell’interesse della gente e della nazione, qualcun altro prenda il comando.

Questa elezione è stato un voto per il cambiamento. Non è stato un voto per un programma articolato.

La gente diceva semplicemente: “siamo stanchi, abbiamo fame, siamo senza lavoro, senza scuole, senza ospedali, vogliamo un cambiamento”. Se i nostri leader lo riconoscessero e avessero il coraggio di mollare nonostante il timore di ciò che dovrebbero affrontare, allora le preghiere dei cattolici che seguono questo programma sarebbero esaudite.

Sarebbe un miracolo, ma un miracolo che potrebbe diventare realtà.

 

Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per "Where God Weeps", un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l'organizzazione internazionale Aiuto allaChiesa che soffre.


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